ABOLIRE IL CARCERE

ABOLIRE IL CARCERE

Intervento pubblicato sul settimanale Left n. 21 del 22 maggio 2020

Alcuni anni fa, durante una visita notturna nell’istituto penitenziario fiorentino di Sollicciano Marco Pannella mi raccontò la sua convinzione che il carcere, tranne che in rarissimi casi, non serve a nulla e che bisognerebbe abolire l’esecuzione della sanzione penale dentro le ristrette mura dei padiglioni carcerari.

Il carcere segna sempre il fallimento della prevenzione e pertanto, aggiunse Pannella, bisognerebbe andare nella direzione di rafforzare le misure alternative alla detenzione.

Era la notte di San Silvestro e quella visita ispettiva, nel freddo ambientale dell’attesa dell’anno nuovo in una sezione penitenziaria, fu per me importante. Ricordo ancora con nitidezza le detenute che accolsero il leader radicale cantando “Pannella-Pannella aprici la cella” in un turbinio di mani che si allungavano dalle finistrelle dei blindi per accarezzarlo o offrirgli un caffè, che in carcere, si sa, non si rifiuta mai.

Oggi stiamo vivendo l’emergenza virus e abbiamo forse capito qualcosa di nuovo attraverso le misure di contenimento sociale della Fase 1, dei blandissimi arresti domiciliari puntellati da sprazzi di libertà condizionata per smaltire i rifiuti o sgranchirsi le gambe. In qualche misura abbiamo anche noi sperimentato il significato della restrizione; e anche quello degli spazi di semantica dell’obbedienza agli ordini delle autorità competenti, che ci giungono con i famosi Dpcm. Come accade a chi in tempi normali si ritrova in prigione non ci siamo scomposti più di tanto nel confronto con il monopolio della forza legittima all’interno di uno Stato democratico.

Il carcere, invece, ha vissuto questo periodo come un’emergenza nell’emergenza cronica.

Molti autorevoli opinionisti hanno sollevato il problema della dignità del detenuto, altri quello della tutela costituzionale del diritto alla salute. Tutti hanno chiesto di ridurre la popolazione ristretta portandola fuori dagli istituti attraverso l’attivazione di alcune misure previste dal nostro ordinamento: la libertà anticipata speciale, i provvedimenti di grazia presidenziale, o l’utilizzo dei braccialetti elettronici.

Poco è accaduto nei fatti e la realtà ha dimostrato come il carcere sia ancora oggi in Italia un tabù. Un luogo della dimenticanza, che è meglio non guardare e non mostrare, pur consapevoli di quanto poco serva ad aumentare il grado di sicurezza di una società civile. Carcerazione ed esecuzione della pena si sono lentamente fuse nell’immaginario giustizialista come un unico totem da difendere in nome di una società che ci si ostina a far credere migliore e più sicura.

Eppure i nostri padri costituenti avevano stabilito con precisione che la pena e il carcere sono due cose distinte. Sembra strano ma è proprio così. Fin dalla nascita del sistema attuale, in molti si chiedono se le prigioni siano davvero la soluzione ai problemi della società. I costituenti, ben consci degli orrori della prigione fascista, tentarono, con l’articolo 27 della Costituzione, di cambiare il volto e la finalità della pena, ma non riuscirono a cambiare il carcere. A conferma di questa semplice osservazione basti pensare che tra l’entrata in vigore della Costituzione e la riforma dell’Ordinamento Penitenziario attuativa della norma costituzionale, trascorsero quasi trent’anni.

A nulla sono valsi gli sforzi di Piero Calamandrei, che nel 1948 volle l’istituzione della Commissione parlamentare sullo stato delle carceri.

“Le carceri italiane… rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori….”. Queste parole di Filippo Turati (riportate nel famoso articolo “Bisogna aver visto” di Piero Calamandrei pubblicato nel marzo 1949 sul numero 3 della rivista Il Ponte interamente dedicato al carcere), riflettono ancora e più quanto s’immagini le condizioni attuali del nostro sistema penitenziario.

Il carcere non porta giustizia e non rende la società più sicura e giusta. Il carcere incarna ancora la vendetta e la maledizione di una società classista che, per usare le parole di Michel Foucault, è incapace di guardare oltre lo statuto dei miserabili. Ancor oggi, infatti, la gran parte delle persone imprigionate nelle nostre carceri, certamente per aver commesso un reato, anche grave, altro non sono che “i plebei emarginati nella società capitalista” che quel reato non ha saputo prevenire.

L’istituto dell’esecuzione della sanzione penale in carcere andrebbe perciò rivisto, e nel tempo abolito del tutto, attraverso un programma politico concreto fatto di investimenti pubblici in tutti gli aspetti indispensabili a una vita sociale e produttiva e libera dalla violenza. Ormai esiste a livello internazionale un affermato movimento per l’abolizione del carcere e, per quanto possa apparire provocatorio, è inserito nel solco evoluzionista della storia dell’esecuzione della pena. Un’onda lunga che nel tempo ha visto la detenzione coatta trasformarsi da semplice attesa del supplizio a una più complessa privazione della libertà. Aveva ragione Marco Pannella nell’affermare che gli strumenti di prevenzione sono elementi fondanti del futuro, specialmente in una società che sta vivendo la trasformazione del capitalismo come elemento di forza bruta, politica ed economica. In una recente intervista all’Huffington Post Gherardo Colombo, già magistrato del pool di Mani Pulite, ha definito la prigione disumana e incoerente con la Costituzione. “È vero – ha proseguito – che gli esseri umani sono un miscuglio di contraddizioni e debolezze che fanno fatica a stare insieme. Il Grande Inquisitore conosce bene la natura umana, sa che l’uomo è fragile, che la libertà inquieta. Eppure qual è la sua soluzione? Dominare gli uomini. Indurli a deporre ai suoi piedi la libertà e offrirgli in cambio una custodia. Mantenendoli bambini, bisognosi di chinare la testa. Insegnandogli solo a obbedire. È quello che fa il carcere. Ecco perché è necessario abolirlo”.

Il difficile cammino iniziato da Piero Calamandrei prosegue dunque in buona compagnia.

Massimo Lensi