E SEMPRE ALLEGRI BISOGNA STARE…

Riproponiamo qui la lettera di Massimo Lensi già apparsa il 7 maggio 2021 sul numero 18 del settimanale LEFT 

Recentemente, il ministero di Giustizia ha annunciato un piano integrato di utilizzo dei fondi del Recovery di 132 milioni di euro, due terzi dei quali per costruire otto nuovi padiglioni penitenziari in carceri già esistenti per “definire un’architettura penitenziaria di nuova concezione”.

La notizia, passata quasi inosservata, ci consente però di individuare alcuni elementi interpretativi che dall’area semantica della carcerazione istituzionale si potrebbero trasferire in quella della società civile.

La mente corre a quei progetti di edilizia carceraria che alla fine del secolo scorso furono al centro di una riflessione generale sul senso dello spazio della pena. Progetti che scaturivano da un concorso di idee promosso dallo stesso ministero di Giustizia per definire, ieri come oggi, un nuovo orientamento dell’esecuzione di pena in Italia. La funzione rieducativa della pena lasciò spazio formale alle visioni retributive, preventive e dissuasive, venendo sepolta, solo apparentemente, dalle petizioni politiche di sicurezza generale. Sull’onda delle innumerevoli richieste, per lo più legate a fenomeni percettivi, di decoro e di lotta contro il degrado urbano, il carcere è uscito oggi dagli angusti corridoi degli istituti e ha traslocato nella vita di tutti i giorni, grazie alle innumerevoli pratiche disciplinari cui si è sottoposti, a cominciare dalla nuova antropologia digitale.

Bene o male, la metafora urbana aveva avuto successo, non nel senso ipotizzato da quel concorso di idee per una nuova edilizia carceraria, ma per definire in chiave securitaria gli spazi urbani di socialità pubblica e demolire il concetto di bene comune. Nasceva la città messa a reddito che ben conosciamo.

Nasceva anche una nuova idea di società disciplinare, che dai libri di Michel Foucault si stava trasferendo nei marciapiedi delle nostre città. Di nuove carceri si sentì subito bisogno e da allora il tema dell’edilizia carceraria sovrappone concezioni umanitarie della pena e richieste disciplinari. La rieducazione in carcere, nelle sue diverse versioni di risocializzazione, di reinserimento e via dicendo, si mantiene perciò intatta a suggellare l’amorosa intesa tra il populismo penale e la necessità di creare corpi (e anime) docili e utili, tanto che diventa agile esportarla nella società civile.

Le città messe a reddito e svuotate dalle funzioni comuni, sono il terreno ideale per questa nuova forma di concezione disciplinare della società.

Il periodo che stiamo vivendo ci porta a confondere le libertà politiche con la libertà di consumare qualcosina di più. E inevitabilmente si parte dal consumo di città. Il turismo di massa è in attesa della nuova Pasqua di Resurrezione d’impresa, come se il turista non aspettasse altro che entrare nella Gerusalemme liberata dalla pandemia e sedersi piacevolmente a desinare nel mercato del Tempio, meglio se ripulito da senza fissa dimora e marginalità di vario tipo.

I nuovi dispositivi disciplinari si radicano nei prospettati motori della Ripartenza. E una nuova società disciplinare sta mostrando i primi passi.

Dalle carceri rieducative alla città vetrina la richiesta è evidente: un nuovo ordine sociale destinato al consumo è in via di affermazione. Una società in cui ogni individuo deve stare al suo posto, e dove non c’è spazio per una soggettività.

Massimo Lensi

 

Qui e In copertina un progetto di Panopticon del 1791