(intervento pubblicato sul Corriere Fiorentino, 23 aprile 2020)
Caro direttore,
comprendo perfettamente i suoi dubbi sul futuro di Firenze, utili anche a prevenire che le illusioni di oggi si trasformino negli incubi di domani. La capacità collettiva di programmare, o meglio ri-programmare, la ripartenza delle attività economiche e sociali della nostra città rischia di scontrarsi, infatti, con l’euforia per la prossima fine del periodo di “lockdown”. Un termine che, come ha osservato la Crusca, deriva dal linguaggio carcerario americano. L’euforia, dicevo, potrebbe portare a non vedere con la necessaria lucidità la dimensione domestica del presente, sconvolta tra una città che è cambiata e la precedente, di cui non sono stati ancora ben soppesati gli errori.
Riaprire è necessario, ma prima che una nuova normalità torni a essere patrimonio di tutti si dovrà superare la vecchia mentalità, quella che ci ha consegnati nella bocca dell’emergenza. Oggi va per la maggiore cercare di dividere la concezione unitaria della crisi, quasi come se esistessero due partiti: il partito della salute contro quello dell’economia. Pandemia contro carestia. Niente di più sbagliato.
I numeri delle famose curve del contagio ci diranno quando arriverà il momento giusto per riaprire tutti i segmenti produttivi in sicurezza e su questo concordo con il Presidente della Regione Toscana che afferma che non è importante “quando”, ma “come”.
Il Covid-19 ha reso evidente un aspetto che, a mio avviso, è l’elemento centrale della riflessione sul futuro che verrà. Dopo la corsa a perdifiato del Dopoguerra, il boom economico, l’alluvione del 1966, la grande recessione del periodo 2007-2013 e le conseguenze dei cambiamenti climatici che sperimentiamo in questi anni, si è aperta una crepa alla base dell’idea che ci possa essere crescita infinita in un sistema dalle risorse finite. Le città fanno parte integrante della riflessione, sotto numerosi aspetti: abitativo, economico, sociale.
Un grande architetto danese, Jan Gehl, in “The Human Scale” ha spiegato che: “ la città è realizzata dagli uomini per ospitare uomini, per cui deve essere la città ad adattarsi agli uomini, non viceversa”.
L’isolamento che ci ha avvolto in questo periodo, e che ancora non è terminato, ci ha inoltre suggerito che ripartire si può e si deve, ma dobbiamo avere ben chiaro che il virus non è una livella: ha colpito più duramente alcuni settori e meno altri. La nostra città ha vissuto negli ultimi anni gli effetti devastanti dell’industria turistica di massa. Basta guardarsi attorno e osservare il vuoto del nostro centro storico e la crisi del settore turistico.
Ora si deve avere il coraggio di comprendere che quel modello non può più funzionare. Forse tornerà, come è accaduto nel passato, nella forma di aiutare il motore economico della città, ma con altre regole non a ripristinarlo.
Firenze non è un modello impersonale, si compone di persone e interessi, di responsabilità amministrative e progetti. E se da una parte l’interesse può essere sicuramente più affidabile dell’altruismo, dall’altra si deve comprendere che deve tornare a farsi strada il rispetto di un’etica sociale che metta al centro della propria elaborazione chi nella città vive, lavora e studia. Le pericolose fantasie sono sempre dietro l’angolo e ogni uomo a volte s’illude che ciò che desidera sia anche vero. La salute non va contrapposta all’economia, è al suo interno, vive intimamente a una crisi sociale che tutto avvolge e tutto comprende. Ora è il momento di muoversi passo dopo passo. Il turismo non tornerà nell’immediato e abbiamo la possibilità, come più volte ha ripetuto il Sindaco Nardella, di percorrere nuove vie.
Dobbiamo solo non contrapporci gli uni contro gli altri, altrimenti, per parafrasare Thomas Hobbes, finiremo per dar retta a chi vede nella regola “Homo homini virus” l’unica possibilità per uscire dalla doppia crisi. E allora sì che le illusioni di oggi si trasformerebbero negli incubi di domani.
Massimo Lensi