Le baruffe ricorrenti tra il Sindaco di Firenze e l’attuale Direttore degli Uffizi hanno almeno il pregio di sollevare l’attenzione su aspetti amministrativi di cui si parla poco. Peccato che si finisca sempre per parlarne sproposito (box 1). L’ultimo caso ha riguardato la tassa di soggiorno e il “tesoretto” che ne perviene alle casse comunali.
Un balzello imposto ai visitatori, come fosse un risarcimento ai residenti e alla città tutta per riparare i danni che si presumono dovuti alla loro presenza.
A guardar bene però non è così.
Da questo vogliamo oggi partire, per contribuire a fare chiarezza e, soprattutto, per offrire quella che ci sembra possa essere una prima e concreta battaglia da condurre tutti insieme per cominciare a contrastare i pesanti costi sociali che l’industria del turismo impone alla città.
Già prima della pandemia, il Comune di Firenze ricavava circa 40 milioni di euro dalla tassa di soggiorno; una tesoretto di cui sarebbe facile immaginare impieghi utili ad alleviare i tanti affanni che affliggono la città. Che sia per questo, o per la difficoltà a confrontarsi con una tassa “di scopo”, un giorno sì e l’altro pure si apre un dibattito su cosa sarebbe più conveniente farne.
La polvere alzata dalle polemiche alimenta l’errata e diffusa convinzione che l’insieme dei balzelli imposti ai turisti sia una sorta di risarcimento ai residenti, che dovrebbero perciò ritenersi soddisfatti e rassicurati da ogni loro aumento.Non è forse questa la logica deduzione da trarre ascoltando fior di amministratori pubblici ripetere che è grazie alla tassa di soggiorno se il Comune di Firenze può mantenere la propria addizionale all’Irpef tra le più basse d’Italia? E la malizia con cui il Direttore del museo più caro e visitato d’Italia propone al Sindaco di concedere l’ingresso gratuito ai fiorentini devolvendo una parte del tesoretto agli Uffizi, non suggerisce forse che l’uso dei proventi della tassa di soggiorno sia del tutto discrezionale? Da ultimo, un autorevole economista, intervenuto sulla stampa locale a difesa delle ragioni del Sindaco si è spinto a definire la tassa di soggiorno come: “un tributo di scopo destinato a coprire i costi sociali della sovra utilizzazione della città da parte dei turisti che non contribuiscono alle entrate fiscali comunali”. Una definizione ineccepibile magari sul piano formale, ma l’ambiguità semantica della parola “coprire” lascia ampio spazio a innumerevoli equivoci, soprattutto se abbinata a “costi sociali” non meglio definiti.
Lo diciamo subito e chiaramente: non proponiamo di cambiarla; siamo convinti che sia giusto, opportuno e urgente abolire la tassa di soggiorno in ogni sua forma. Riteniamo che questa forma di tassazione sia iniqua e sia stata concepita e poi applicata senza riflettere sulle pericolose dipendenze che può creare per le città che le adottano.
Nelle città meta di milioni di turisti e visitatori la tassa di soggiorno diventa fin troppo facilmente una trappola in cui la vita amministrativa finisce per trovarsi imbrigliata in voci di spesa che non può davvero controllare perché vincolate ad alimentare proprio il motore che ne fa crescere costi e necessità (box 2).
Un motore guidato dal marketing del turismo mondiale, che è saldamente in mano di multinazionali private. La molteplicità d’interessi e sinergie con il tessuto economico territoriale che l’industria del turismo è in grado di suscitare e trascinare nel vortice della propria crescita (salvo rimpiazzarli di continuo con offerenti migliori) fa poi il resto. La rete che s’instaura è talmente ampia e capillare che un meccanismo come quello della tassa di soggiorno non può che risolversi nella progressiva distorsione del confine tra competenze pubbliche e private, fino a renderlo quasi impercettibile.
Per capire cosa davvero copre la tassa di soggiorno, conviene andare a leggere direttamente le norme che autorizzano alcuni Comuni a imporla. L’articolo 4 del Decreto Legge n. 23 del 14 marzo 2011 al comma 1 recita: “I comuni capoluogo di provincia, le unioni di comuni nonché i comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte possono istituire, con deliberazione del consiglio, un’imposta di soggiorno a carico di coloro che alloggiano nelle strutture ricettive situate sul proprio territorio, da applicare, secondo criteri di gradualità in proporzione al prezzo, sino a 5 euro per notte di soggiorno. Il relativo gettito è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, ivi compresi quelli a sostegno delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e recupero dei beni culturali ed ambientali locali, nonché dei relativi servizi pubblici locali.”
Dunque, una tassa che si applica solo a chi dorme – e già paga il pernottamento – in strutture ricettive, pubbliche o private che siano. A quale scopo? La chiave è nel secondo capoverso. Lasciando per un attimo da parte l’apparentemente incomprensibile “sostegno alle strutture ricettive”, si potrebbe esser tentati di convenire che almeno le attività rivolte alla manutenzione e fruizione di servizi pubblici e recupero di beni culturali e locali possano riguardare tutti e rientrare così nella definizione di “costi sociali”. Sarebbe però un grossolano errore, perché le attività elencate sono finanziabili con la tassa di soggiorno non in quanto tali, ma solo se giustificabili come “interventi in materia di turismo”, proprio come le strutture ricettive, la cui menzione acquista ora una coerenza logica. Tradotto in esempi pratici: con la tassa di soggiorno a Firenze si può coprire la pulizia di strade e piazze in zona Unesco, almeno in parte la pulizia dei viali, ma non quella di zone già più periferiche, come via ponte alle Mosse e ancor meno via Pistoiese, viale Europa, viale Milton, viale Volta, via di Soffiano ecc. Idem dicasi per i servizi del trasporto pubblico: quanto di competenza comunale in associazione alle tramvie che connettono il centro con i parcheggi scambiatori magari sì, gli autobus per piazzale Michelangelo anche, ma gli autobus per Brozzi, Sorgane o Nave a Rovezzano no, i bussini in centro nì, almeno finché ai turisti basteranno taxi e Ncc.
Ancora, ragionando per analogia: il Giardino di Boboli e il parco di Carraia sì, le Cascine nì e in futuro forse sì (ne abbiamo parlato qui), quelli delle scuole no, ma se sono nel centro storico e aperti al pubblico magari si, i giardinetti a San Jacopino no, un camping o un ostello pubblico sì, le case popolari no … Si arriva così a realizzare quanto in concreto i residenti della città possano beneficiare della tassa di soggiorno per sostenere i servizi che davvero gli servono: poco o nulla. Piuttosto, i servizi che si possono coprire con la tassa di soggiorno sono proprio quelli che i fiorentini sentono maggiormente sottratti alla loro fruizione, proprio a causa di un turismo che si è fatto eccessivo.
Obbligate dalla propria missione a garantire servizi alle città, le amministrazioni comunali delle città meta di un turismo in crescita non possono che trovarsi spiazzate nel confronto con le spese richieste da un consumo di città. Un consumo che diventa in breve tempo sproporzionato rispetto ai propri bilanci e capacità fiscale, che sono invece legati al numero di residenti reali. Del resto, la politica, per non assumersi il rischio di intralciare quel mercato che ha rinunciato da tempo a regolare, ha fatto a pezzi i pochi strumenti di cui disponeva anche solo per provarci. Da lì, è stato poi immediato il passaggio a perdere la consapevolezza che, se la grande attrazione che traina tutto il mercato è la città stessa, il conflitto, prima o poi, diventa inevitabile.
Stretti tra i vincoli di bilancio e il proprio mandato, i Comuni delle città d’arte non potevano che aggrapparsi alla tassa di soggiorno come a un’irrinunciabile ancora di salvezza. Un’ancora che sembra disegnata proprio per evitare di tassare i guadagni di un’industria che muove milioni di turisti e visitatori, spostandone l’onere sui consumatori che già ne pagano merci e servizi. Oltretutto, utilizzando modalità che aggiungono iniquità all’ingiustizia, perché la legge prevede che a pagare la tassa di soggiorno siano solo i visitatori pernottanti nelle strutture ricettive (box 3).
Che sia legittimo chiedere un contributo ai turisti per il consumo di città sembra ormai cosa scontata, del resto la legge lo prevede. Ma è davvero giusto e lo si fa in modo equo? La legge prevede che la tassa di soggiorno sia imponibile solo ai non residenti che pernottano in strutture ricettive comunali.
Chi non pernotta, o non risulta pernottare, non paga, come se la sua presenza in città non imponesse costo alcuno, o comunque trascurabile in confronto a chi ci vi spende più tempo e soldi, frequentando un maggior numero di musei, negozi o ristoranti (ogni volta assoggettandosi a tassazione indiretta attraverso i consumi). La realtà è che solo nelle strutture ricettive le persone devono identificarsi e possono essere raggiunte da una tassazione diretta. A Firenze la tassa si paga per un massimo di sette giorni consecutivi e la tariffa cresce in ragione del “lusso” in cui si sceglie di pernottare. Chi pernotta in strutture più care paga una tassa più alta fino a un massimo di 5 € (a breve innalzato a 10 €). Questo scaglionamento che apparentemente mima una sorta di progressività fiscale, in realtà determina una flat tax all’incontrario: se dormi in un cinque stelle alla tariffa di 600 € per notte paghi una tassa di 5 € pari allo 0,8% del costo della stanza, se scegli un appartamento in locazione breve a 100 € paghi 4 € pari al 4%, se soggiorni per 40 € in un hotel con una sola stella paghi 3 € di tassa, pari al 7,5%.
Se quanto sin qui elencato non bastasse a suscitare qualche allarme, si aggiunga che, poiché la tassa di soggiorno è una tassa di scopo ben definito, l’utilizzo dei proventi che il Comune ne ottiene è obbligatoriamente rivolto a finanziare beni, attività e servizi finalizzati a mantenere e incrementare l’attrattiva della città. L’impiego della tassa finisce quindi per contribuire ad aumentare i flussi di visitatori, tassabili e non, e con essi le spese.
Scatta così un altro meccanismo della trappola, che pone l’amministrazione anche in serie difficoltà laddove, ad esempio, si trovasse a dover contrastare un aumento della capacità ricettiva della città per contenere i costi sociali di una sua eccessiva espansione (box 4). Le uniche alternative praticabili nell’immediato rispetto a un aumento del numero di pernottamenti possibili sarebbero, infatti, un aumento della tassa di soggiorno per tutti, o la sua estensione ai non pernottanti, con ticket di ingresso complicati da disegnare e difficilmente esigibili. Misure che però rischierebbero di influire negativamente sull’attrattiva della città e rivelarsi un boomerang per un’industria che, nel frattempo, ha già assunto caratteri dominanti nell’economia del territorio.
Similmente, le politiche di delocalizzazione volte a ridistribuire parte dei flussi sul territorio circostante offrono marginale sollievo, se non diventano addirittura dannose. Quand’anche scelga di soggiornare in un Comune limitrofo, nessuno viaggiatore rinuncerà, infatti, a spendere almeno una giornata in città d’arte come Firenze o Venezia, sfuggendo per di più in questo caso all’obbligo di versarvi la tassa di soggiorno.
I “costi sociali” cui la tassa di soggiorno dovrebbe secondo alcuni offrire sollievo non sono i tanti disagi e gravami economici, né la continua spinta al rialzo del mercato immobiliare e del costo della vita, o l’impronta climatica che l’industria del turismo continua a causare. Di questi, che sono i veri costi sociali che si riversano su chi a Firenze risiede e lavora (se ne parla diffusamente ad esempio qui , qui, qui e in questo libro qui), nessun bilancio pubblico o d’impresa tiene il conto, nonostante il loro peso sui bilanci personali dei residenti. Oltretutto, quand’anche fosse consentito stornare parte degli introiti della tassa di soggiorno verso servizi ai residenti – ma sia chiaro che non lo è – non parrebbe in ogni caso materialmente possibile. A freddare la speranza che qualche spicciolo possa avanzare alle necessità improrogabili del turismo ci ha pensato lo stesso Sindaco di Firenze. Nel rintuzzare le pretese del Direttore degli Uffizi ha spiegato che l’imposta di soggiorno serve a rendere la città più attraente per i turisti ammettendo che già la sola pulizia dell’area Unesco richiede costi divenuti astronomici. Non a caso, tra i primi atti da parlamentare
del precedente assessore al bilancio nella sua giunta figura un emendamento finalizzato a includere Firenze nel novero delle città cui è consentito aumentare la tassa di soggiorno fino a 10€, in ragione di un numero di visitatori annui superiore di almeno 20 volte al numero dei residenti. La tassa di soggiorno serve dunque a evitare che sui residenti si riversino costi astronomici necessari a finanziare servizi che loro non usano, o usano a fatica. In parole povere, la tassa di soggiorno serve per sostenere l’overtourism, e impedisce che i residenti tutti ne abbiano troppo oggettiva visione del costo. I veri costi sociali di cui sopra si palesano a ciascuno in misura e modalità diverse e anche per questo faticano a diventare coscienza condivisa. Un cambio delle aliquote fiscali, invece, sarebbe da subito un fatto collettivo e, se esagerato e ingiusto come sarebbe in questo caso, scatenerebbe un putiferio.
Sarebbe facile, giunti a questo punto, arrendersi al dato di fatto e sparare a zero scaricando ogni responsabilità su quanti si sono succeduti alla guida di quei Comuni e territori ad alta vocazione turistica, che oggi si trovano a fronteggiare situazioni di overtourism conclamate.
Realtà, come Firenze e Venezia, dove i costi sociali ambientali ed economici di uno sviluppo dal basso valore aggiunto ora cominciano a palesarsi in ondate di sostituzione sociale, ritmate da sfratti e costi abitativi in crescita perenne. Un valore aggiunto basso e distribuito in modo talmente diseguale da essere percepibile come aumento del reddito medio solo con statistiche che calcolano la media aritmetica da una manciata di posizioni di rendita ricchissime spalmate su una maggioranza che al reddito medio neanche ci arriva (ne abbiamo parlato qui).
Un NON sviluppo in realtà, perché intrinsecamente legato a una crescita possibile solo attraverso continui rilanci al ribasso delle tutele, sfruttamento commerciale di beni comuni e progressiva sostituzione dei residenti con city users e “residenti temporanei”.
Contribuire ad alimentare la dialettica delle parti contrapposte sarebbe però ingenuo. Perché se è indubbio che non siano mancate scelte politiche che, per insipienza o ideologia, hanno ispirato azioni amministrative che quelle rendite hanno finito per favorire, è altrettanto vero che a dimostrarsi pronti ad approfittarne, cavalcando le promesse suadenti della sharing economy con cui l’industria turistica continua a presentarsi casa per casa, sono stati in tanti.
La favoletta del welfare sociale costruito sulla casa ereditata dalla nonna, trasformata in bed & breakfast per arrotondare il reddito familiare, continua a essere raccontata. Per credere ancora al canonico finale “e vissero tutti felici e contenti” però, ora occorre chiudere bene gli occhi. Guardare altrove per non vedere che a possedere e gestire gran parte degli immobili utilizzati per ricettività extralberghiera sono ormai soprattutto grandi società immobiliari e residenti soltanto anagrafici, emigrati altrove già da un bel po’.
Il giocatore principale, ormai, ha quasi preso il controllo: vere alternative di sviluppo (e lavoro) indipendenti dal mercato turistico cominciano a scarseggiare, mentre il rendimento che l’industria ricettiva extralberghiera garantisce alla speculazione immobiliare continua a crescere e a erodere spazio all’abitare.
Ora o mai più occorre dunque unirsi tutti, sapendo che il cammino non potrà essere facile, né breve, o indolore. Non resta più molto spazio per giocarsi con qualche speranza la possibilità di riconquistare la città a sé stessa come organismo vivo, animato da conflitti che si confrontino con l’obiettivo comune di conquistare un equilibrio che tuteli i diritti di tutti.
Cominciare dal non aumentare la tassa di soggiorno può essere un primo concreto passo per uscire da una dipendenza ferale. Lasciare che per usura la città diventi un po’ meno bella e accogliente, che le tracce del consumo si possano palesare anche ai visitatori, a partire dai luoghi dove spendono per consumare, offrirebbe una non banale occasione di toccare con mano quali siano le cause e a chi spetti assumersene la responsabilità.
Fermare il proliferare dei posti letto, non solo alberghieri e in tutta la città, aprendo invece ovunque alla possibilità di aggiungere alla bellezza vera efficienza energetica da sole fonti rinnovabili, sarebbe poi il secondo, irrinunciabile passo per riportare a livelli sostenibili i costi dell’abitare, per chi una casa ce l’ha e per chi la cerca.