Foto di copertina © Massimo Lensi
Forme di ricettività all’interno delle civili abitazioni sono cosa antica. Affittare una camera a studenti, lavoratori, o qualche turista di passaggio è sempre stata una forma di arrotondare i bilanci familiari, magari con la formula della mezza pensione. Col tempo però questa ricettività è molto cambiata, assumendo sempre più i connotati, quando non anche la forma, dell’impresa.
In molte Regioni, come la Toscana, si è scelto di sostenere lo sviluppo di strutture ricettive extralberghiere di ogni tipo, senza prevederne in alcun modo un possibile impatto problematico sui nuclei abitativi, o, ancor meno, sul tessuto sociale, urbanistico ed economico delle città.
Il Testo Unico sul Turismo della Regione Toscana elenca numerose tipologie di strutture ricettive con le caratteristiche di civile abitazione, come tali liberamente insediabili in immobili classificati nei regolamenti urbanistici a uso residenziale: esercizi di affittacamere e bed and breakfast (gestiti in modo imprenditoriale o meno), case e appartamenti per vacanza, residenze d’epoca, residence e locazioni turistiche (gestiti in modo imprenditoriale o meno, Art. 44, comma b, L.R. 86/2016). A queste si devono poi aggiungere le eventuali unità abitative degli alberghi diffusi il cui insediamento è previsto nei borghi rurali e nei “nuclei insediativi in ambito costiero caratterizzati da pregio ambientale, vitalità e vivibilità dei luoghi aventi popolazione uguale o inferiore a 5000 abitanti” (Art. 21, comma 7), le cui caratteristiche possono perciò essere difformi da quelle previste per la ricettività alberghiera.
Molti dei nostri centri storici sono ormai quasi interamente dedicati alla ricezione turistica, e Firenze, nel cui territorio vige da anni il blocco all’apertura di nuovi alberghi, non fa eccezione.
Un recente studio sulla gentrificazione turistica eseguito dalla Sapienza, con il Ladest e l’Università di Siena ha mostrato come, alberghi a parte, oltre il 25% dello stock immobiliare del centro storico fiorentino sia destinato alla ricezione turistica in offerta su Airbnb.
Se fuori dai centri storici la situazione è per ora migliore, niente assicura che resti tale. Le attività ricettive extralberghiere, imprenditoriali e non, stanno diffondendosi rapidamente in ogni parte delle nostre città, dalla strada le si nota magari poco, se non per il via vai di trolley all’interno di case e palazzi, un tempo sede di uffici e abitazioni familiari.
Oltre all’effetto tossico sul mercato degli affitti di lungo periodo, la riduzione dello spazio abitativo e i disagi introdotti nello stesso, ai legislatori nazionali e regionali pare evidentemente sfuggito che l’aver escluso per tutte queste tipologie ricettive l’obbligo di mutare la destinazione da residenziale in commerciale si sta risolvendo in un danno economico diretto per i residenti, come comunità e come singoli individui. Basti pensare alla moltitudine di frazionamenti che hanno trasformato appartamenti prima abitati da famiglie di 2-5 persone, in b&b di 4-5 stanze con altrettanti bagni, o in 3-4 mini appartamenti con 2-3 posti letto. Trasformazioni che cambiano il carico antropico di palazzi, strade e quartieri senza che si sia previsto alcuno strumento di monitoraggio, o per porvi eventualmente un freno, o, quantomeno, per operare una ripartizione equa delle spese condominiali e dei servizi.
Costi che aumentano per i residenti nei condomini.
Se i consumi di un appartamento locato a una famiglia di turisti possono equivalere a quelli di una famiglia residente, così non è quando l’uso ricettivo comporta una moltiplicazione dei posti letto, come avviene nella maggioranza dei casi, e un via vai continuo di turisti e addetti a prestar loro servizi a vario titolo. È evidente che danni e usura delle parti comuni hanno incidenza ed entità ben inferiori quando a condividerne l’uso sono sempre le solite persone rispetto a una popolazione di utenti in continuo mutamento, ancor più se interessata a un consumo veloce e intensivo.
Coerentemente alla previsione di un’utenza più impattante sui beni comuni, per gli immobili che ospitano uffici negozi o alberghi sono previsti specifiche destinazioni d’uso alle quali far corrispondere coefficienti correttivi significativamente più alti di quelli assegnati alle civili abitazioni nel disegno delle tabelle millesimali su cui ripartire le spese condominiali. Analoghi coefficienti non possono però essere applicati agli immobili sede di attività di affittacamere, bed & breakfast, case e appartamenti per vacanza, residenze d’epoca e locazioni turistiche, perché il legislatore non ha voluto prevedere per essi destinazioni diverse da quella residenziale, omologandone l’impatto a quello di una qualsiasi famiglia di residenti. Il risultato inevitabile è che parte dei costi d’impresa di ciascuna di queste attività vanno a spalmarsi su tutti i condomini che, pur non avendone responsabilità, né compartecipazione ai guadagni, si trovano a dover far fronte all’aumentata necessità di svuotare le fosse biologiche, pulire gli spazi comuni, movimentare gli ascensori, riparare portoni e serrature ecc. Senza poi contare i disagi quotidiani di convivere con un sistema ricettivo privo di tutte quelle caratteristiche di controlli e standard di sicurezza previsti per le attività commerciali propriamente dette.
Costi che aumentano per i residenti delle singole città e in generale dello Stato.
I numeri contenuti in un recente studio della Regione Toscana indicano che il mercato attivato dalla sola piattaforma Airbnb nel territorio regionale ha generato nel 2019 un miliardo di rendita (449 milioni nella sola Firenze), più o meno l’ammontare dell’export regionale verso la Cina. A differenza del mercato dell’export, che è fatto da imprese iscritte alle Camere di Commercio, quello della ricettività extralberghiera in offerta su Airbnb e su altre piattaforme annovera al suo interno un bel po’ di attività sommerse (2 su 3 in Toscana, 1 su 2 a Firenze, 1 su 20 in ampia parte della provincia di Arezzo), che sfuggono non solo al sistema statistico regionale sulla ricettività turistica, ma anche alla fiscalità generale e locale. Stimare a quanto ammonti il danno per le casse dello Stato e dei Comuni non è cosa semplice, per le stesse ragioni per cui una buona parte di questo mercato può ancora operare in un area grigia, quando non francamente in nero. Date le dimensioni del sommerso è però ragionevole ritenere che non sia danno di poco conto.
Le principali facilitazioni per questa mancata emersione provengono dalla impossibilità di operare controlli direttamente attraverso, e dentro, le piattaforme, oltre che dalla estrema difficoltà di operare controlli territoriali capillari e continui su un numero di attività che in molte città supera di gran lunga il potenziale degli organi preposti.
Quand’anche si provvedesse al varo di un’auspicabile legge nazionale che introduca il codice identificativo obbligatorio per ogni tipologia di attività ricettiva e nei relativi annunci pubblicitari, resterebbe immutata la possibilità per le piattaforme che li pubblicano di eludere le regole delle giurisdizioni locali. La normativa comunitaria vigente, ribadita con recenti sentenze dalla Corte Europea di Giustizia, include, infatti, i servizi delle piattaforme come Airbnb tra quelli della società dell’informazione, il che preclude ai legislatori nazionali e regionali, e alle amministrazioni locali, ogni diritto di porre vincoli e regolazioni particolari alla libertà del servizio offerto. Per la stessa ragione neanche è davvero possibile attraverso le piattaforme controllare se quanto fiscalmente dichiarato delle attività emerse corrisponde al numero effettivo di transazioni operate e al regime “non professionale” delle stesse. Gli unici veri controlli teoricamente praticabili sono quindi quelli sul territorio, con tutte le difficoltà, e i costi per le casse pubbliche, che la capillarità richiesta per una simile operazione comporta data l’estrema diffusione di queste attività.
Cambierebbe qualcosa se si prevedesse l’obbligo di mutare la destinazione d’uso dell’immobile ove l’attività si svolge?
Probabilmente si, quantomeno si aggiungerebbe un forte incentivo all’emersione di molte attività che ancor oggi si annidano anonimamente nei condomini protette dalla classificazione residenziale delle civili abitazioni, nonché a una miglior identificazione di quante fra esse siano realmente non imprenditoriali. Una classificazione più conforme alla reale natura di gran parte di queste attività, infatti, offrirebbe quello strumento che oggi manca per tutelare i diritti di molti condomini, mentre una semplice visura catastale permetterebbe a chiunque un primo livello di verifiche.
Se poi tutte le amministrazioni pubbliche provvedessero, come hanno fatto Siena e Venezia, anche a pubblicare mappe georeferenziate di tutte le attività ricettive risultanti sul territorio, si creerebbero condizioni ancora più favorevoli alle verifiche e all’emersione delle attività ora sommerse. In breve tempo si potrebbe addirittura pensare di legarle ai portali della promozione turistica e creare una rete pubblica di portali comunali, regionali e nazionale attraverso cui fornire, a condizioni decisamente più favorevoli per clienti e piccoli o grandi host locali, gli stessi servizi ora in mano a un oligopolio di piattaforme private con sede fiscale fuori dai confini nazionali.
Il potenziale guadagno di una simile operazione in termini di risorse recuperate, di quantità e qualità di big data ottenuti e disponibili per cittadini, pubbliche amministrazioni e aziende, e di legalità sarebbe tale da ripagare ampiamente costi per la creazione di portali di questo tipo e per la loro gestione da parte di personale altamente qualificato. Del resto sia l’Italia, sia molte sue città come Firenze, Venezia, Roma, Napoli, sono ormai “brand” sufficientemente potenti da poter immaginare campagne di marketing internazionale efficaci nel cominciare a contrastare un oligopolismo privato che ne sfrutta sempre più intensamente il territorio, lasciandovi poche briciole degli immensi guadagni che ne trae.