SE IL LAVORO MANGIA LA CITTÀ, L’AFFITTO DIVORA IL SALARIO

SE IL LAVORO MANGIA LA CITTÀ, L’AFFITTO DIVORA IL SALARIO

Il tema dei lavoratori introvabili domina da giorni le cronache, non solo nel nostro Paese. In Italia però si fa molta fatica ad andare alla radice del problema. Appurato che il reddito di cittadinanza non ne è la causa, tolte di mezzo le gratuitamente offensive cantilene sul “fannullonismo”, molti segnali dovrebbero indurre a puntare l’attenzione su alcuni problemi “di sistema”, che da troppo tempo sono ignorati. Al netto di situazioni d’illegalità e sfruttamento, ancora troppo diffuse e gravi, il problema si pone come mai prima, anche in situazioni formalmente ineccepibili e non solo nei soliti settori della ricettività, della ristorazione o dell’impiego stagionale. È notizia di pochi giorni fa, ad esempio, l’ondata di rinunce al posto fisso nella pubblica amministrazione da parte di persone che per farlo avrebbero dovuto trasferirsi in qualche regione del nord Italia. Dov’è dunque il problema?

La povertà sta aumentando drammaticamente e, a meno di non pensare che si preferisca la fame a un lavoro purchessia, dovrebbe esserci abbondanza di manodopera. A patto, però, che il lavoro disponibile ti tolga la fame in misura ragionevole e proporzionata ai costi immateriali e materiali che ti accolli nell’accettarlo. Ecco, forse il problema si annida qui, e magari non è solo legato ai salari, che indubbiamente in Italia sono più bassi che altrove.

Nella discussione pubblica sul costo del lavoro c’è un dettaglio che fatica a entrare e solo superficialmente può sembrare illogico o marginale: per il lavoratore l’impiego, oltre a procurargli un salario, comporta invariabilmente delle spese. Costi che, in ragione delle condizioni al contorno, possono essere talmente alte da rendere impraticabile il lavoro stesso.

Se per lavorare ti è richiesto di trasferirti in un luogo dove solo per affittare una casa devi spendere metà del tuo stipendio, oppure devi aggiungere a turni già lunghi altre ore dedicate agli spostamenti (e spese per gli stessi), ecco che si spiega perché, pur trovandoti in stato di bisogno, quel lavoro potresti essere costretto a rifiutarlo. Fatti due conti in tasca il risultato indica che ci andresti a perdere e che, magari, ti converrebbe di più un lavoretto meno pagato nella precaria situazione in cui già sei, perché almeno risparmieresti sulla spesa, sull’affitto, o sui servizi alla famiglia, che puoi continuare ad accollarti col tempo risparmiato al pendolarismo. È questa, in effetti, la spiegazione che molti lavoratori forniscono ai pochi che si curano di andarglielo a chiedere. Solo banalizzando si può ricondurre tutto questo alla mera perdita di potere di acquisto dei salari e, magari, delegare unicamente alla contrattazione tra lavoratori e categorie datoriali l’onere di trovare una soluzione. È proprio ciò che si sta facendo, alimentando tensioni sociali di cui rischiamo di pentirci a breve. Il problema, infatti, è ormai talmente vasto da imporre un’analisi severa del modello di sviluppo in cui siamo immersi, in particolare di alcuni meccanismi perversi che abbiamo permesso vi si innestassero, senza pensare alle conseguenze.

L’aver lasciato che le città e interi territori diventassero merce sul mercato dello svago – nella finzione che tutto fosse solo un problema di libertà d’impresa e non anche di regole necessarie a tutelare case, servizi e spazi per abitare, lavorare e vivere – impone di pagare un prezzo, che solo (?) oggi si scopre enorme.

Se per creare lavoro continueremo a convogliare investimenti prevalentemente nella promozione del turismo, in un economia fatta di terziario a basso valore aggiunto, se proseguiremo a spostare le case dallo spazio abitativo a quello della rendita o del reddito d’impresa, le spese per l’abitare continueranno a crescere. E con esse continuerà ad allargarsi il divario tra costo della vita e salari, essendo questi ultimi inesorabilmente compressi da una produttività condannata al ribasso, in un mondo del lavoro ormai frammentato in un inverosimile numero di lavoretti pseudo-autonomi.

La favoletta di affittacamere, bed & breakfast, affitti brevi non professionali, che offrirebbero valorizzazione del territorio e pure un surrogato di welfare arrotondando il reddito delle famiglie, è ormai sonoramente smentita dai fatti. In città come Firenze, Venezia, Roma, Napoli, o nelle tante località vacanziere del nostro Paese, per ogni saltuaria attività in arrotondamento al reddito, ammesso che ne esistano ancora, sono sorte come funghi centinaia d’imprese ricettive a spese di ogni altra forma di produttività e del resto della città, di cui drogano il mercato immobiliare fino a farlo divenire appannaggio della speculazione e proibitivo per i lavoratori, a partire dai i propri. Anche al settore della ristorazione, strettamente imparentato con la ricettività e il turismo, non va del resto meglio visto che già prima che i lavoratori cominciassero a scarseggiare, queste tipologie di impresa nel 40% dei casi non restavano attive per più di 5-6 anni.

Già oggi il cerchio sembra pronto a chiudersi in una spirale vorticosa: l’industria del consumo turistico si mangia le case, gli affitti si mangiano gli stipendi e il lavoro può sussistere solo strizzando all’osso sia i lavoratori sia le imprese. Un circolo vizioso da cui uscire diventa sempre più difficile, soprattutto se la politica non torna a ricoprire il ruolo che le è proprio: governare, anticipando e prevenendo i problemi invece di inseguirli, tenendo insieme le fila delle dinamiche sociali ed economiche, invece di impastarsi mani e piedi solo in queste ultime fino a restarne prigioniera.

Il conto per gli errori commessi in questi ultimi venti anni sta arrivando a tutti. Per qualcuno è ancora “solo” un problema di qualità della vita, per un numero crescente di persone è già questione di sopravvivenza. Per le istituzioni pubbliche, e quindi per ogni contribuente, si sta manifestando come necessità di reperire risorse per rispondere a un numero sempre maggiore di famiglie in difficoltà nel pagare l’affitto, la spesa, i medicinali, evitando loro di precipitare nella marginalità totale e provando a prevenire una nuova stagione di conflitti drammatici per tutti.

Gli anni della pandemia ci hanno sbattuto in faccia il vuoto di vita e il pieno di povertà che si genera affidando parti importanti dell’economia di un territorio al consumo volatile del superfluo. Abbiamo preferito chiudere gli occhi e trattenere il respiro, per poi ripartire correndo ancor più a perdifiato di prima.

Le crisi che abbiamo davanti, ecologica, energetica, economica e le sanguinose tensioni globali promettono di farci pentire di non aver saputo approfittare di quella pausa dandoci nuove regole e nuove capacità. Facciamolo ora, altrimenti di fiato non ce ne resterà punto.