SE L’ALGORITMO DIVENTA LA CITTÀ

Foto di copertina © Massimo Lensi

Su piattaforme e il perverso meccanismo del rating che gli algoritmi costruiscono sulle prestazioni (degli host, dei rider, degli autisti, dei liberi professionisti, delle guide turistiche ecc.), non c’è molto da aggiungere a quanto in tanti abbiamo detto e non da ora.

La consapevolezza che sembra ancora sfuggire è, invece, che il potere che l’algoritmo esercita sulle nostre vite non viene dal nulla. E neanche da Mordor. A dargli potere siamo noi, in cambio della semplificazione che offre nel soddisfare bisogni e desideri di chi compra e di chi vende. Lamentarsi che poi arrivi a condizionarci è un inutile piangere sul latte versato. Certo, come singoli possiamo “cambiare stile di vita” e limitarne l’impatto sulle nostre azioni, ma con molta fatica e solo parzialmente.

Piaccia o meno, le nostre città negli algoritmi sono immerse e sugli algoritmi continuano a costruire le proprie fortune.

Firenze, come tutte le città che vivono di terziario, ancor più se turistico, è un esempio lampante. Non a caso il sogno (o l’incubo) di ogni operatore (ristoratore, albergatore, conduttore di experience, autista, negoziante ecc.) è la reputazione sulle piattaforme e i social. È in base a quella che l’algoritmo rende visibili. Se non ci sei, o ci sei male, non lavori. Per quanto unica al mondo possa essere, la rinomata culla del Rinascimento, scomparirebbe dai desiderata del mondo se le piattaforme del marketing globale fossero indotte a proporre altre destinazioni attraverso narrazioni o prezzi migliori. Lo sanno bene anche i direttori dei musei e non è un caso che alcuni tra loro operino sui social al pari dei più rinomati influencer, o addirittura con essi.

Le stesse classifiche sulla qualità della vita nelle città sono alla fine frutto di un algoritmo in cui contano le spunte su una serie di voci (quanto verde, quanti km di piste ciclabile, quanti asili nido per abitante, quante biblioteche, bici e monopattini in sharing, colonnine di ricarica per veicoli elettrici ecc.) non certo il giudizio ponderato di più persone che l’esperienza di vivere in un dato posto l’hanno fatta davvero, (constatando se il verde è davvero curato, se le piste sono solo dipinte sull’asfalto, quali orari e condizioni di lavoro negli asili e nelle biblioteche, come circolino e sostino i veicoli, ecc.).

Del resto, se amministri una città che vuoi continui a essere visitata da decine di milioni di persone in cerca dell’esperienza unica, che vanno messe a tavola e alla fine a letto, ma prima intrattenute, divertite e ben stimolate con mille occasioni di spesa, beh, allora dell’algoritmo non puoi proprio fare a meno. E politicamente te ne devi fare carico.

Puoi decidere di stare al loro gioco, lasciando che la città sia in ogni suo aspetto sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta per come l’algoritmo la interpreta. Puoi farci patti perché diano visibilità agli operatori di cui certifichi qualità e storicità, per riscuotere le tasse di soggiorno, per invitare a prolungare il soggiorno. Ma magari potresti anche porre dei limiti agli ambiti di espansione dei mercati in cui l’algoritmo domina, proteggendo la vita della città e dei suoi abitanti, i loro diritti, le loro fragilità.

E il primo ambito da proteggere è quello abitativo.

Se non trovi una casa a prezzi ragionevolmente proporzionati a uno stipendio medio, puoi solo andartene o cercare di guadagnare altri soldi, sacrificando diritti, tutele e subordinando la tua vita all’algoritmo e alla sua fretta imperiosa. E tutto il resto va di conseguenza.

Perché se una parte via via crescente di popolazione, famiglie, studenti, lavoratori, per pagarsi la casa scivola in povertà il problema è di tutta la città, che di loro deve farsi carico, o di loro dovrà fare a meno scivolando verso la desertificazione.

Fior di studi, a Firenze come altrove, evidenziano come siano ormai gli algoritmi di piattaforme come airbnb, booking ecc. a determinare il mercato immobiliare sia nei prezzi, sia nella disponibilità di case per usi diversi dalla ricettività breve. È stata coniata addirittura una nuova parola, airbinbizzazione, per descrivere come, al netto dell’impegno degli host e della qualità degli immobili, sia l’algoritmo costruito dalle piattaforme sul sentiment dei consumatori, a decidere quali siano le zone della città che rendono di più, semplicemente rendendole più visibili. Ed è sempre l’algoritmo a determinare chi al loro interno campioneggia sugli altri con la propria offerta, o su quali zone limitrofe si espanda il mercato, una volta raggiunta la saturazione. Certo, a far la differenza sono le infrastrutture, le vetrine, la bontà del cibo, la qualità che il consumatore immortala in selfie e recensioni, mentre porta a spasso sul suo cellulare le app geolocalizzate che lo sommergono di notifiche sull’offerta che gli si para intorno.

La sintesi però la fa l’algoritmo, che si tiene l’ultima parola.

Si è parlato a lungo in questi ultimi anni di leggi speciali per le città d’arte, proposte di legge di iniziativa popolare, iniziative con altre città europee. Tutte sentitamente condite d’indignazione per gli aspetti disumani delle trasformazioni che le piattaforme e gli algoritmi brutti e cattivi portano nelle nostre città e nelle nostre vite. Tutte illustrate dall’alto come risposte di “ben altra” efficacia a chi, come noi, chiedeva che intanto si agisse almeno su base locale e regionale, usando i pur limitati strumenti urbanistici esistenti, e le competenze regionali sul governo del territorio, per contenere l’ulteriore diffondersi di ogni tipo di ricettività extralberghiera nello spazio residenziale.

Nel frattempo sono caduti governi, sono arrivate la pandemia, la guerra, la crisi energetica, inequivocabili manifestazioni di sconvolgimenti climatici e deterioramenti economici e sociali, ma nulla è stato fatto.

Forse, è il forse è solo una clausola di stile, proprio ora che le condizioni politiche per una legge nazionale sembrano le più difficili, è giunta l’ora di decidersi a osare facendo almeno quanto si può; in attesa che ritornino tempi e maggioranze propizie per realizzare il “ben altro” e, magari, farne anche in Parlamento una battaglia di opposizione responsabile, da parte di una classe dirigente che davvero vuol tornare a contatto con i bisogni della gente.