WELCOME VENICE. UN FILM CHE PARLA ANCHE AI FIORENTINI

WELCOME VENICE. UN FILM CHE PARLA ANCHE AI FIORENTINI

Foto di copertina la locandina del film Welcome Venice, diretto da Andrea Segre,
in distribuzione da settembre 2021

 

La fine è già nel titolo. Non Welcome to Venice, ma Welcome Venice. L’assenza di quella piccola preposizione mette subito in chiaro che non è di un benvenuto nella città lagunare che si andrà a parlare. Oggetto dell’omaggio non è la città, ma il brand che di essa si è impadronito, offrendosi come fonte sicura di reddito ai suoi antichi abitanti e rendendola straniera a sé stessa. Quasi tutti ormai si sono trasferiti sulla terra ferma e i loro figli, che vi sono nati, coltivano con la città vecchia una relazione di interesse, mediata dal denaro che si può ottenere sorridendo anche dal più insopportabile collezionista di selfie mentre gli si spalanca la porta di quella che fu casa dei nonni.

Lo scoppio della pandemia sembra inceppare il meccanismo. Lo splendore della laguna improvvisamente vuota si riverbera fin nelle calli più scure, scoprendo lacrime di rimpianto negli occhi dei padri e una stilla pronta alla consapevolezza in quelli dei figli. Ma dura un attimo. Il vento del marketing torna gagliardo a soffiare con la ritrovata libertà di consumare. Nuovi potenziali soci si affacciano sorridenti alla porta di casa. Una manna di denaro fresco per rinnovare i fasti della vita di ieri, ammodernando il packaging della città vetrina di quel tanto che serve a camuffarne la vorace espansione vestendola di delocalizzazione in nome della sostenibilità. Le impressionanti immagini dei giorni della pandemia, del resto si offrono alla narrazione come armi formidabili per sedurre nuovi viaggiatori e sedare qualunque voce critica. Welcome Venice.

Solo l’ultimo dei moecanti sembra avere ancora la voglia di resistere. Dalla sua la forza di una vita riscattata nelle accoglienti barene della laguna, in cui trascorre giornate a pescare moeche, i granchi nella delicata fase di muta e perciò privi del solido carapace che altrimenti li difende. E’ proprio l’inusitata nudità che li rende inermi a farne croccante delizia dopo un tuffo nell’olio bollente. Le “pepite di Venezia”, piatto di tradizione secolare e oggi presidio Slow Food per palati raffinati, a loro volta sembrano lì ad attestare che tutto ormai è inesorabilmente legato alla portentosa macchina del consumo turistico, e che dal vecchio adagio mors tua vita mea nessuno si può davvero sottrarre. Meno che mai un solitario pescatore di moeche.

Sarà proprio lui, invece, con un’inaspettata danza macabra, a tracciare la linea del limite estremo, oltre il quale, il guadagno dell’oggi predispone per domani la sconfitta di tutti. Lo sguardo innamorato con cui Andrea Segre porta davanti ai nostri occhi la vita di Venezia e della sua splendida Laguna, non fa sconti alla stupidità collettiva, consegnando a ciascuno la consapevolezza che il tempo è scaduto e distrarsi non è più possibile. Venezia ha quasi raggiunto il punto di non ritorno. Firenze la segue ad un passo.

La messa a reddito di ogni spazio e aspetto del territorio, in pressoché totale assenza di azioni, quando non di strumenti, per governarne la tutela della comunità che lo abita, ha silenziosamente consentito alle leggi di mercato di estendere impropriamente il proprio ambito fin nello spazio della cittadinanza. La sostituzione dei cittadini residenti con residenti temporanei disattiva i meccanismi di rappresentanza nel governo delle città in un processo tanto poco percepito da rischiare di divenire inarrestabile. L’enorme massa di pendolari, per lavoro gli uni per svago gli altri, ha ormai con le città un rapporto sempre più mediato da uno stesso interlocutore: l’industria del turismo. Politica e istituzioni locali, perse nell’illusione delle delocalizzazioni, rischiano di ritrovarsi prive di una comunità che le legittimi, costrette a inseguire la tassa di soggiorno e a fronteggiare, come moeche senza corazza, padelle gorgoglianti di nuovo cemento.